Al congresso annuale Le Grecco (Groupe de Recherches et d’Etude de Chirurgie Coeliscopique de l’Ouest) a Lorient ho avuto il privilegio di animare uno speech cercando di trovare un ponte tra le mie esperienze e quelle dei chirurghi che vivono, ogni giorno, il confine sottile tra il protocollo e l’imprevisto. Ho riconosciuto in loro qualcosa di profondamente familiare: la solitudine del decisore, la gestione della crisi, la capacità di restare lucidi nella fatica, il dovere di prepararsi mentalmente prima ancora che tecnicamente. Tutto questo è presente in mare e in sala operatoria. Ho scoperto che il lavoro del navigatore oceanico solitario e quello del chirurgo condividono più di quanto sembri.
1) Protocolli: guida, non gabbia
In mare come in sala operatoria i protocolli sono la nostra rete di sicurezza. Nella mia preparazione, checklist e procedure riducono il carico cognitivo e liberano risorse per ciò che non si può prevedere. Ma la competenza nasce anche dalla capacità di mettere in discussione la procedura quando le condizioni cambiano. In regata, una burrasca che accelera o un’avaria che evolve impongono scelte fuori manuale. In sala operatoria, mi spiegavano, anatomie variabili impongono adattamenti. Il punto non è “seguire o disubbidire”: è comprendere il perché della regola per decidere quando e come modularla senza tradirne il principio.
2) La gestione della crisi: prepararsi alla sorpresa
Nella preparazione alla solitaria dedico tempo a “allenare la sorpresa”: scenari, simulazioni, “e se…?”. Alleno la mente a riconoscere segnali deboli e a passare rapidamente da una visione ampia (“cosa sta succedendo davvero?”) a una focalizzata (“qual è la leva più efficace adesso?”). Una equipe medica fa lo stesso: si prepara con briefing, stabilisce ruoli chiari, piani B e C e affronta cosi la sala operatoria. In mare sono solo, ma porto con me un rito simile: checklist di emergenza a portata di mano, strumenti pre-posizionati, criteri di interruzione definiti a freddo (quando fermarsi per salvare la barca e me stesso). La crisi, preparata bene, diventa una sequenza di piccole decisioni gestibili.
3) Decidere sotto stress: pochi parametri, molto chiari
Sotto stress il cervello vuole semplificare. È umano. Per questo, prima di una traversata, definisco 3–5 indicatori critici che guidano le scelte: stato della barca, evoluzione del meteo, energia residua, rotta di fuga, integrità fisica. In sala, il chirurgo fa qualcosa di analogo con i parametri vitali. Il segreto non è “avere più dati”, ma sapere quali contano adesso. Ridurre la complessità a poche mappe mentali consente di guadagnare velocità senza perdere qualità.
4) Stanchezza: trattarla come una variabile tecnica
La fatica non è solo una sensazione, è una variabile di progetto. Programmo micro-sonni, nutrizione, idratazione e gestione dell’energia come fossero cambuse e vele. Anche un chirurgo conosce bene la traiettoria della stanchezza: turni, tempi di concentrazione, recupero. La lucidità si protegge a monte con routine e a valle con segnali oggettivi (test rapidi di attenzione, “stop rule” personali). È più umile e professionale ammettere “adesso mi fermo” che proseguire con un cervello che non è più al 100%.
5) Preparazione mentale: l’altra metà dell’allenamento
Alleniamo i muscoli, gli strumenti e la tecnica. Ma è la mente preparata a rendere la tecnica affidabile quando tutto trema. Visualizzazioni, respirazione, rituali di ingresso (“da qui in poi sono in modalità decisione”), de-briefing per integrare l’emozione. C’è un punto che mi ha colpito parlando con i chirurghi: quando si perde un paziente, sono soli nel peso di quella responsabilità. In mare, se sbaglio, il primo a pagare potrei essere io. In entrambi i casi, serve un lavoro mentale serio: spazio per l’elaborazione, per imparare senza indurirsi, per continuare a scegliere con umanità.
6) Etica e responsabilità: la solitudine del decisore in mare come in sala operatoria
Scegliere quando cambiare vela alle tre di notte con 45 nodi o quando convertire un intervento in qualcosa di più invasivo è un atto etico prima che tecnico. È assumersi la responsabilità del rischio giusto. La solitudine del decisore non è isolamento: è rispondere a se stessi in coscienza, sapendo di aver fatto tutto il possibile, come stabilito in tempi di calma.
7) Errori e quasi-errori: una cultura per imparare
Registro meticolosamente non solo gli errori, ma i quasi-errori: momenti in cui qualcosa ha rischiato di andare storto. Sono minatori silenziosi. In sanità, la cultura del near-miss salva vite. In mare, salva la campagna. Il mio diario di bordo non è un racconto, è uno strumento di miglioramento continuo: cosa rifarei, cosa cambierei, quale segnale ho quasi ignorato?
8) Tecnologia: alleata, non sostituta
Autopiloti, sensori, routing: straordinari. Ma la decisione resta umana. Lo stesso vale per l’innovazione in sala operatoria. La tecnologia sposta i limiti, non la responsabilità. Per questo provo ogni strumento tecnologico innovativo in simulazione, finché il gesto corretto diventa naturale, facendo comunque sempre attenzione che la mia relazione con gli strumenti sia di fiducia, mai di dipendenza.
In mare e in sala operatoria la vera differenza non è tra chi è “coraggioso” e chi no, ma tra chi si prepara e chi si affida alla fortuna. Ho trovato nei chirurghi la stessa severa gentilezza che cerco di coltivare con me stesso: essere esigenti sui processi e compassionevoli con l’essere umano che decide.
Ringrazio chi, al congresso di Lorient, ha condiviso con me esperienza e riflessioni. Torno a me con la sensazione che, quando due mondi si parlano, nessuno resta uguale: si naviga meglio e si opera meglio.

